Un anno fa, ancora ci si cullava con l’idea che il rialzo del tasso di variazione annua del livello dei prezzi potesse essere temporaneo, transitorio. Ora praticamente nessuno abbraccia più questa idea. Anche perché a peggiorare i colli di bottiglia degli approvvigionamenti formatisi già dopo il primo anno di Covid è intanto intervenuto lo scenario geopolitico internazionale, con la guerra russa in Ucraina.
Risultato: a febbraio l’indice nazionale dei prezzi al consumo in Italia ha subito un’ulteriore accelerazione, con un +5,7% su base annua, ai massimi degli ultimi 10 anni: questo è quanto ha riferito l’Istat nelle sue stime preliminari. I rialzi più eclatanti sono stati quelli dei beni che contengono “ingredienti” provenienti dalle aree interessate dal conflitto (Ucraina) e dalle conseguenti sanzioni occidentali (Russia): e quindi benzina e gasolio, pasta e pane (Russia e Ucraina, insieme, forniscono al mondo il 29% delle esportazioni mondiali di grano tenero per la panificazione [1]), ma anche, naturalmente, bollette elettriche e del gas. E pensate: negli ultimi 12 mesi il caffè è aumentato del 108%.
Ma se questo è l’effetto sulla nostra dispensa, vi chiedete mai quale potrebbe essere l’effetto sui vostri conti correnti?
L’effetto inflazione sui nostri conti correnti
Il conto corrente è uno strumento sacrosanto. Ma nella gestione del proprio flusso di reddito (stipendio, pensione, altro) e, soprattutto, dei propri risparmi va affiancato con altri strumenti. È la stessa inflazione a fornirci la prova di questa necessità. Ma possiamo quantificarne l’impatto reale sui nostri soldi?
Certo che sì. Supponendo un tasso annuo di perdita di valore del denaro (questa, di fatto, è l’inflazione) pari al 5% (come quella di questi mesi), abbiamo che chi tiene sul proprio conto corrente risparmi per 7.500 euro, il prossimo anno ne avrà idealmente persi 375. Equivalente, appunto, al 5%.
In termini di reale potere d’acquisto, quei 7.500 euro avranno infatti perso la capacità di convertirsi in beni e servizi per un 5% del totale. E se questo è quel che può accadere in un anno, immaginate cosa potrebbe succedere in cinque o dieci: nei casi più estremi, si rischia l’azzeramento del valore. Per mantenere lo stesso potere d’acquisto, bisognerebbe compensare quel 5% di valore in meno. Ma come?
La chiave è nella differenza tra valore reale e nominale
Secondo la Banca d’Italia, sui conti correnti italiani sono depositati 1.854 miliardi di euro. Che con un tasso d’inflazione pari al 5% annuo, rischiano di generare una perdita di quasi 100 miliardi l’anno. Prima abbiamo parlato di apparenza: ebbene, la chiave di quello che all’apparenza può sembrare un controsenso sta nella differenza tra valore nominale e valore reale.
Tornando ai nostri 7.500 euro, noi avremo che:
Facciamo un esempio molto concreto. Nel 2010 il prezzo medio di un’utilitaria era di 12.000 euro. Fino al 2020, l’inflazione è rimasta intorno al livello del 2% annuo. E già così, anno dopo anno, il prezzo dell’automobile è salito, arrivando al 2020 a quasi 15.000 euro. Comprando dieci anni dopo, ci occorre più denaro. Cosa fare, quindi?
Meglio non tenere i soldi fermi. La soluzione è investire
La scelta migliore è redistribuire il risparmio mantenendo magari un 15-20% sotto forma liquida e investendo il resto. Questo, per esempio, è quanto emerge dal confronto tra un portafoglio bilanciato calcolato sui rendimenti degli indici MSCI World e Bloomberg Global-Aggregate Total Return contro un non investimento eroso da un’inflazione ipotizzata al 4%. Ecco, quindi, cosa accade a 10.000 euro lasciandoli sul conto corrente (e ipotizzando un tasso di inflazione che rimanga sulla media di quella attuale).
Fonte: AdviseOnly.com